Disoccupazione femminile in Italia, quali sono le cause?

Dalle manifestazioni in piazza delle suffragette ne è passato di tempo e molti passi sono stati fatti per ridurre il divario tra uomo e donna. Siamo nel 2012 e molte cose somigliano al 1948. Le donne manifestavano e ancora lo fanno, portavano i bambini a lavoro con loro e tutt’ora è così. Proprio su questo punto fondamentale si dibatte in politica: manca un Welfare che concili lavoro e famiglia. I datori di lavoro preferiscono le donne single a quelle sposate, valorizzano poco il loro lavoro e spesso le licenziano se in gravidanza.

Eppure le donne, secondo i dati Istat, hanno un grado d’istruzione più alto degli uomini e, questo, dovrebbe preferirle agli uomini al momento della selezione. Invece, la scolarizzazione non basta a ridurre il gap retributivo del 20% inferiore a quello dei colleghi uomini.

A livello contributivo, per l’Inps, le donne sono meno costose, ma nonostante questo la disoccupazione sotto i 30 anni è molto forte. La colpa della mancanza di lavoro, non è dovuta solamente alla crisi che stiamo attraversando ma contribuiscono diversi fattori:

  • Difficile conciliazione lavoro-famiglia;
  • Nascita del primogenito con abbandono del posto di lavoro;
  • Scoraggiamento per la continua ricerca del posto fisso, ormai inesistente.

Analizzando passo passo le varie cause, ci accorgiamo che la donna pur di lavorare accetta contratti a progetto o di collaborazione che non tutelano la gravidanza. Questi contratti sono la prima causa di abbandono del posto di lavoro per il periodo di gestazione e la successiva assistenza del figlio.

Altre volte non si tratta della scadenza dei contratti ma di una scelta ragionata da parte della donna stessa. S’inizia a riflettere su pro e contro, su spese ed entrate e ci si rende conto che lavorare per pagare una baby sitter o un nido non ha senso, meglio dedicarsi personalmente.

Il tasso di disoccupazione è infine causato dalla mancata ricerca di annunci lavorativi, spesso fasulli e inconcludenti.

Una soluzione per riformare il sistema sarebbe quella di ridistribuire il lavoro tra uomo e donna a pari merito e diritti, sviluppare una rete di servizi funzionante contribuendo a rendere la conciliazione lavoro-famiglia più serena.

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1 Comment

  • Mi piacerebbe mettere in evidenza, (considerando che “l’informazione di massa” fa finta di nulla) che il maggior tasso di occupazione maschile è dovuto in gran parte al maggior numero di partite iva intestate a persone di sesso maschile. La stragrande maggioranza degli imprenditori è di sesso maschile, infatti, sia i grandi imprenditori che i piccoli imprenditori sono quasi sempre uomini ai quali bisogna aggiungere gli artigiani, le ditte individuali, i professionisti etc. Ricordo che questo è il paese della medie, piccole e micro imprese, quindi non si parla di piccoli numeri pur essendo in diminuzione per effetto della crisi. Inoltre, una parte delle partite iva femminili sono le cosiddette “ partite iva mascherate” che mascherano un lavoro che potrebbe essere a tutti gli effetti un lavoro dipendente, quindi la differenza effettiva tra partite iva “reali” intestate a persone di sesso maschile e femminile dovrebbe essere ancora più alta.
    Il maggior tasso di occupazione maschile è quindi dovuto alla maggiore iniziativa maschile, OSSIA GLI UOMINI IL LAVORO SE LO SONO CREATO, mentre la stragrande maggioranza delle lavoratrici sono delle dipendenti.
    Nonostante questo si incentiva la discriminazione maschile nel lavoro dipendente assicurando degli sgravi contributivi per le donne e non per gli uomini nella stessa condizione vedi L 30/03 e detrazioni Irap per le aziende che assumono donne over 35 vedi dl 201/2011 poi convertito in legge.
    Il fatto è assurdo considerando che si incentiva ancora la donna nel lavoro dipendente quando dovrebbe essere incentivato l’uomo che percentualmente è più imprenditore della donna e più lavoratore autonomo della donna.
    Comoda la vita così

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